Le tradizioni e le radici del nostro territorio sono da sempre uno dei fili conduttori del nostro pastificio. Anche per questo abbiamo deciso di collaborare con la nuova rivista D.Mare, mensile dedicato ad Ancona, alle Marche e all’Adriatico.
A partire dal mese di Agosto, al suo interno troverete un nostro articolo di approfondimento sul mondo dell’agroalimentare. Sul sito del periodico (che trovate qui) potrete sempre scaricare la versione digitale della rivista.
Ecco il nostro primo contributo.

L’educazione alimentare.
Sempre più diffusa nel mondo , sta portando al recupero di tipologie di grano dimenticate da tempo

Si fa presto a dire fettuccine. Ma quando mangiamo è importante conoscere il “cosa”, non solamente il “quanto”.

Protagonista indiscussa delle tavole degli italiani, la pasta si divide in diverse tipologie: pasta secca, pasta fresca, di grano duro, all’uovo, ripiena. Ingrediente costante di ogni tipo di pasta è il grano (o frumento), nelle diverse tipologie e nelle varie forme che può assumere in seguito alla sua lavorazione.
Le nostre nonne sanno perfettamente che per “tirare la sfoglia”, per fare cioè la pasta fresca in casa, si utilizza la farina 00, frutto della macinazione del grano tenero (Triticum vulgare). Regola non valida per la pasta secca di produzione industriale o artigianale. Per garantire gli standard qualitativi della pasta italiana la legge (decreto del presidente della Repubblica 9 febbraio 2001, n. 187) stabilisce l’obbligo di utilizzo esclusivo del grano duro (Triticum durum) e quindi della semola, prevedendo una tolleranza del 3% per la presenza di farine di grano tenero nelle paste secche di semola e all’uovo. Limite non vincolante per quella prodotta in altri paesi la quale, grazie alle “alchimie” del nostro legislatore, può essere commercializzata in Italia.

Nel corso degli anni la coltivazione intensiva del frumento ha portato all’abbandono di alcune varietà di grano ed alla conseguente perdita di alcune sue caratteristiche autentiche ed originali. Storicamente importante è l’anno 1925 che segna l’inizio della Battaglia del Grano (che vede negli studi e nell’opera dello scienziato italiano Nazzareno Strampelli il protagonista fondamentale), politica agricola messa in atto dal governo fascista italiano e finalizzata all’aumento della produzione di frumento per ettaro. Questo al fine di donare al paese autosufficienza alimentare, modernizzare il settore agricolo, estinguere la piaga dell’emigrazione. Si passò da una produzione di 44 milioni di quintali nel 1922 agli oltre 80 milioni di quintali del 1933, senza quasi aumentare la superficie coltivata. Sostituito l’intento di migliorare le condizioni di vita di un popolo con quello della massimizzazione del profitto, si è rischiata l’estinzione di tante specie di frumento. La riscoperta dell’educazione alimentare sta portando lentamente al recupero di alcune tipologie di grani antichi che non hanno subìto alcuna modificazione da parte dell’uomo per aumentarne la resa.

Considerando solo le antiche varietà coltivate in Italia, possiamo citare il grano Senatore Cappelli, il più famoso, ma ne esistono molti altri.
Ad esempio:

  • il Tumminia o Timilia, molto conosciuto nel trapanese e caratterizzato da un alto valore proteico e un basso indice di glutine;
  • il Grano Monococco, che ha una storia di 10 mila anni, coltivato in provincia di Brescia ed in Piemonte, alto valore proteico e basso indice di glutine;
  • il Gentil Rosso, frumento tenero diffuso in Romagna, fra il 1920 ed il 1930 il grano più coltivato in Italia;
  • il Rieti, originario della cittadina laziale, ha il grosso pregio di resistere ad una malattia, la ruggine.

Perché recuperare queste antiche tipologie di frumento? Perché non sono stati rimaneggiati geneticamente dall’uomo, sono meno raffinati e vengono lavorati con la macinazione a pietra. Inoltre, hanno meno glutine e mantengono un rapporto più equilibrato tra la presenza di questo e dell’amido. Infine, sono più leggeri, digeribili ed evitano lo sviluppo di intolleranze.